I

Caratteri e fasi della letteratura italiana nel Settecento

Nel ripensamento dello sviluppo della critica e della storiografia letteraria applicata al Settecento italiano dal Croce in poi, attualmente due istanze si presentano con particolare forza proprio di fronte alla interpretazione e delineazione che il Croce ha offerto della «letteratura» settecentesca, tenendo ben conto di quanto quell’interpretazione e delineazione siano state arricchite e approfondite soprattutto dagli studi del Fubini. L’istanza di una piú chiara decisione circa le possibilità e realtà poetiche del Settecento italiano e l’istanza di una storicizzazione intera, scandita, del secolo e delle sue varie fasi: storicizzazione da attuare sulla base di uno studio della poetica come momento di commutazione in tensione e direzione artistica e poetica di problemi letterari e di problemi e condizioni storiche, culturali, spirituali, sociali, e come essenziale avvio e sostegno alla comprensione storico-critica della poesia.

Studio di poetica e di poesia, dunque, e non solo di poetica, perché, puntando sulla presenza di questo solo termine nel Settecento italiano (sia pure sino ad Alfieri escluso), si potrebbe anche ritornare, per altra via da quella crociana, all’effettivo riconoscimento di una assenza della poesia in una storia di aspirazioni e tensioni alla poesia, interessanti e importanti, ma prive di corrispettivo poetico. Magari risolvendo, come da qualche parte si potrebbe tentare di fare, la vera poesia del Settecento italiano nella realtà meno discussa della sua musica, della sua pittura, della sua scenografia: le Quattro stagioni di Vivaldi come un’Arcadia superiore all’Arcadia letteraria, le opere «buffe» e «serie» di Pergolesi, Cimarosa, Paisiello, come i veri drammi settecenteschi, la pittura di Tiepolo come il vero trionfo del grandioso e dell’idillico, quella di Longhi e Guardi come la vera poesia del quotidiano della realtà umana, del paesaggio, le stampe di Piranesi come la vera poesia preromantica e neoclassica delle rovine e della tomba morale-eroica, e magari certe soluzioni urbanistiche e architettoniche (ad esempio la romana Trinità dei Monti) come le autentiche creazioni della fantasia settecentesca.

Mentre poi insistendo su di un carattere, pur a suo modo vero ed importante, del Settecento italiano, si potrebbe solo battere sul suo valore preparatorio rispetto alla grande epoca di primo Ottocento, facendo della poetica settecentesca e delle sue parziali realizzazioni soprattutto un’enorme riserva di immagini abbozzate, di cadenze incompiute, di forme e moduli di linguaggio e di tecnica in attesa della scintilla creatrice portata da Alfieri e poi da Foscolo e da Leopardi.

Ma in realtà il Settecento italiano non fu solo un secolo di poetica programmatica e, se esso fu indubbiamente ricco di tensioni e aspirazioni che trovarono, a vario livello e soprattutto nelle sue fasi terminali, la loro resa poetica piú alta nella zona classico-romantica, ebbe anche una sua vita poetica interna, trovò, a vario livello, espressioni poetiche minori e pur non «cestinabili», ed espressioni poetiche intere, specie se si mantenga, pur con la sua potenza di apertura verso una nuova epoca, lo stesso Alfieri nelle sue origini e nei suoi legami settecenteschi.

E chi potrebbe ormai, seguendo le indicazioni del Croce, escludere dalla «poesia» e mantenere in un ambito solo di «letteratura» il Goldoni e il Parini? Mentre pare ormai difficile negare al Metastasio, pur nelle sue limitazioni storiche e personali, il nome e la qualità di poeta e non di semplice letterato e abile librettista.

Né occorrerà, si badi bene, ricercare e sperar di trovare accenti di poesia anche in poeti minori con operazioni antistoriche e sterili, con errate forzature in senso drammatico, ad esempio, dove invece prevale il patetismo elegiaco ed idillico, ma proprio invece seguendo le linee genuine della tensione poetica piú storicamente accertabile e del suo corrispettivo di modi di vita e di cultura nelle varie fasi settecentesche, smussando il divario fra la serietà critica, pratica, tecnica del Settecento e una sua intera aridità poetica.

Ché, in realtà, non di una generale poetica e di una generale poesia del Settecento si può convenientemente parlare, ma di poetiche e di forme di poesia entro un arco di sviluppo complesso e graduato che dall’Arcadia ci conduce alle soglie del primo Ottocento.

Vanno dunque rifiutate energicamente sia le totalizzazioni a base di unità compositive con eterni ritorni di elementi diversi e magari contraddittori, unificati col giuoco assai facile della interna contraddittorietà delle epoche di trapasso, sia le totalizzazioni all’insegna di costanti tematiche e letterarie di eroismo e idillio pastorale, sia quella stessa conglobazione di tutto il secolo, sino ad Alfieri escluso, nell’Arcadia, che è piú propria dell’interpretazione crociana.

E occorrerà anche rifiutare certe assolute preclusioni preventive (secolo razionalistico dunque impoetico) perché entro quelle nozioni, poi cosí varie, di poesia, lo storico può ritrovare modi di possibilità poetiche particolari non perdendo mai di vista l’esigenza storica di valutare internamente e concretamente le loro ragioni e le possibilità poetiche particolari che vissero entro quelle nozioni di poesia.

Non neghiamo con ciò che si possano cercare linee verticali nello sviluppo settecentesco anzitutto nel sostrato storico-culturale sia nella Weltanschauung e nel modo di vita dominati da istanze morali e civili (la pubblica felicità, la socievolezza, il senso della civitas, ecc.), sia nei termini comuni a Weltanschauung, a estetica e letteratura (natura-ragione, utile-dulci, piacere-virtú) particolarmente piú percepibili nella zona lata che arriva al Parini, sia nella forza dell’educazione umanistico-classica su cui si è sempre molto e giustamente insistito.

Ma queste stesse linee, per renderci conto della loro portata e della loro risoluzione in poetica e in poesia, vanno verificate nel loro effettivo variare, nella loro intensità e profondità, nel loro diverso significato e carattere.

E proprio un forte, anche se graduato, passaggio va ben fatto valere tra Arcadia e illuminismo, evidenziato insieme da ragioni di fondo e da aspetti di poetica e di poesia. Perché mai un arcade avrebbe neppure immaginato una poesia come la Salubrità dell’aria, né avrebbe svolto il tema del fuoco o della guerra, dettati dall’Accademia dei Trasformati, nel senso polemico-umanitario con cui li svolse il Parini intorno al 1760. Mai un arcade avrebbe tentato un linguaggio come quello delle prime odi del Parini, in cui entrano, attraverso la nuova coscienza civile e la nuova coscienza di poetica, gli elementi della nuova cultura e del nuovo impegno, la nuova figura del letterato, la nuova forza della moralità pariniana personale e storica, la nuova componente sensistica, la nuova funzione del classicismo nobilitante ed evidenziante, in una sintesi che rinnova e trasvaluta anche gli elementi di piú forte continuità e fa del Parini il poeta dell’illuminismo, come il Metastasio era stato il poeta dell’epoca arcadico-razionalistica e l’Alfieri sarà il poeta della crisi illuministica e della rivolta preromantica.

Ché poi tutto il secondo Settecento è piú fortemente collegato all’epoca nuova in cui si collocano, dopo l’apertura alfieriana, Foscolo, Leopardi e Manzoni: passaggio d’altra parte da rivedere come su di un livello piú alto per quel che riguarda l’epoca arcadico-razionalistica, con la sua ricchezza di stimoli preilluministici, con la sua densità e ricchezza di fermenti estetici e culturali, con le sue possibilità artistiche e poetiche, entro i suoi limiti storici, cosí diverse dalla successiva squalifica polemica e dal puro adeguamento ad un’epoca morta e di pura decadenza o pendant, per difetto, di ciò che il barocco sarebbe stato per eccesso.

Si tratta di graduare e di storicizzare fortemente lo sviluppo settecentesco, senza ricadere in schemi romantici superati e accettando comunque dal Croce la fondamentale idea che la storia moderna italiana comincia coll’ultimo trentennio del Seicento, e cioè con l’apertura dell’epoca arcadico-razionalistica, pur non perdendo con ciò di vista il fatto che la nuova epoca si apre, specie nella sua espressione letteraria, con il peso di inevitabili residui e in una zona meno attiva e decisamente rinnovatrice di quella illuministica, con forti remore conformistiche, con margini evidenti di evasione, di esercitazione retorico-accademica, di proliferazione improvvisatoria, con parziali elementi di cultura piú stanca e retorica che richiesero e motivarono poi la reazione antiarcadica di illuministi e preromantici.

Ma tutto ciò è pure margine inferiore e vistoso di centri vivi e va anche valutato in uno sviluppo, di solito poco considerato, della stessa Arcadia, fra consolidamento di effettiva tendenza espressiva e decadenza nei suoi elementi piú futili e convenzionali.

In una prospettiva di ricostruzione storicistica si può qui rapidamente articolare la prima fase della letteratura del Settecento italiano: l’epoca arcadico-razionalistica, con le sue poetiche, inseparabili da una centrale e complessa spinta rinnovatrice di carattere anzitutto morale e culturale, ma insieme di impegno estetico e di nuova costruzione artistica. Spinta che va rilevata anzitutto nella sua Weltanschauung antibarocca o concretamente non piú barocca: filosofia morale e razionalistica, tensione alla pubblica felicità e al paternalismo illuminato, esigenza di riforma e ripresa della tradizione come sostegno di nuova attività, rottura dell’isolamento provinciale barocco e senso di una società almeno di dotti, di uomini «bennati» e «prudenti», esercitanti il buon gusto come nozione circolare di buon discernimento scientifico e critico, di saggezza morale, di schiettezza sentimentale, di correttezza e proprietà linguistica, di organicità e chiarezza stilistica, di mentalità razionalnaturale che aspira (fra velleità e possibilità) a tradursi in poesia spontanea e controllata, con un nuovo legame di cose e parole, di «sodi» pensieri e di stile comprensibile, comunicabile, efficace.

Ciò che riprospetta in maniera diversa gli stessi elementi stilistici e terminologici del residuo barocco su cui troppo spesso si è puntato guardando ad una piú astratta storia di gusto e di stile. Ché si dovrà, da una parte, rivedere lo stesso Seicento nella sua complessità di svolgimento; considerare la crisi interna del barocco nel secondo Seicento; e soprattutto si dovrà avvertire lo spirito nuovo, l’accento nuovo che permea la stessa terminologia di ascendenza barocca nell’estetica e nella poetica arcadica, e che svolge, verso la linea agile e mossa, ma lucida e ordinata, del rococò classicistico-razionalistico, moduli provvisori di «barocchetto» con tutto un impegno complesso di filtro della musicalità e immaginosità barocca in forme piú limpide e organiche, adeguate alla mentalità razionalnaturale della nuova epoca e a quel controllo della ragione che positivamente serve insieme a difendere la fantasia dal lusso dispersivo, dalla «lascivia» barocca e dall’inaridimento prosastico dei boileauiani francesi, con il riconoscimento duplice e connesso dei diritti della fantasia e del suo dovere di reinserimento in un contesto morale e civile.

Con tutto un vasto convergere, nella costituzione dell’Arcadia, di istanze letterarie e di istanze piú generali che le sorreggono in un ampio fronte iniziale di fine Seicento che va adeguatamente studiato nella sua ricchezza di motivazioni storico-culturali e nella varietà dei contesti e dei problemi legati a precise situazioni personali e ambientali, per meglio capire la forza di apertura, l’impulso innovatore dell’epoca arcadico-razionalistica e delle sue poetiche prima del prevalere della linea crescimbeniana-romana e del suo carattere di impoverimento e il consolidamento del gusto arcadico.

Si pensi alle particolari istanze della cultura speculativa etico-civile meridionale, che motivano nel Gravina la sua poetica classicistica e mitico-didascalica con esigenze di rigorismo morale, di impegno democratico (cosí chiaro nella tematica delle sue tragedie), con il bisogno di assoluta organicità dell’opera e che, pur nella diversità di genialità e di senso piú profondo della storia e della poesia, inseriscono nella matrice dell’epoca arcadico-razionalistica anche la possente opera del Vico.

O, per quel che riguarda la prearcadia e Arcadia toscana, si pensi al rapporto tra la ripresa e continuità galileiano-rinascimentale, e le nuove esigenze letterarie di chiarezza, ordine, organicità, con tutto un vivo legame fra cultura e poetica, con la ricerca (fra Redi e Menzini) di un recupero di realtà nelle parole e di schemi costruttivi che tendono ad adeguare uno spirito lucido critico e socievole in misure di dialogo e scena, in ritmi agili e mossi con un rilievo finale che dipende però dal centro tematico e ritmico e si oppone allo scoppio concettistico barocco.

O infine, per quel che riguarda la zona settentrionale piú apertamente ricca di motivi morali e religiosi (svarianti fra la pietas gesuitica e dolciastra del De Lemene e quella piú severa e autentica del Maggi), si pensi al rapporto fra moralità e poetica, fra senso del vero e del bello che trovano le loro punte piú alte nella meditazione estetica, critica e pragmatica del Muratori e del Maffei, nelle istanze morali del teatro dello Zeno o della satira riformatrice del Marcello, nell’eroico morale piú velleitario, ma non privo di un suo impeto arduo, del Guidi, e soprattutto della poesia meneghina e in lingua del Maggi o nella limpida e fine poesia minore del Manfredi. E insieme con questi motivi una ricca tensione di poetica che corrisponde alla difficile nascita di una mentalità, di una cultura, di una letteratura nuova: polemica antiipocrita alle origini di tanto teatro comico (Gigli e Nelli), polemica contro le usanze semifeudali della società barocca, leggi contro violenza e arbitrio, recupero dell’elemento femminile alla vita socievole e culturale, al bisogno di «civile conversazione». E i ritrattini delle biografie arcadiche nel loro modulo di conversione morale-poetica, pur con tutto quello che hanno di accademico e di rigido, sono altrettanti spiragli illuminanti su di una società nuova in lenta formazione con remore, residui, pericoli conformistici ed eccessiva prudenza, ma certo con una nuova circolazione di idee, con un nuovo costume, con un maggiore apporto di ceti borghesi e una iniziale conversione di zone aristocratiche, attraverso la cultura, ad una nuova forma di partecipazione civile.

D’altra parte, in questa prima fase di apertura, alla sua maggiore ricchezza e impegnatività corrispondono chiari limiti di moralismo (l’attacco di Muratori all’immorale ed empio Molière), di eccessiva fiducia nella riforma della poesia ad opera di volontà e d’intelletto (l’ingenuità muratoriana nell’invito agli scrittori italiani alla gara con i francesi nel campo del teatro: «Sudino, s’affrettino, ed empiano finalmente una sedia che promette sicuramente un nome eterno a chi saprà conquistarla»), di infatuazione megalomane per i prodotti nuovi purché antibarocchi, e tutta una certa rigidezza, corrispettivo di una cultura non bene affiatata circolarmente, di una poetica che spesso scambia forme barocchette grandiose o una ripresa del manierismo cinquecentesco con una nuova e piena conquista di moderna classicità. E insieme un eccessivo divario fra proposte contenutistiche e formalistiche e una proliferazione morbosa di pseudo-poesia convenzionale e di esercitazione poetica come «dovere sociale», che sovrabbonda specie nella linea romana crescimbeniana di un’Arcadia bonne à tout faire e troppo spesso portata (specie dalle correnti piú conformistiche e curiali) a risolvere la sua contemporaneità in letteratura encomiastica di potenti e di occasioni frivole.

Ed è su questa linea che si può misurare un certo restringimento e impoverimento di motivi e temi rispetto alla primissima Arcadia, ma anche un effettivo consolidamento, con la sua effettiva limitazione delle piú sproporzionate tentazioni grandiose, con le sue esigenze socievoli e conversevoli, con la sua mondanità vivace ed idillica, ottimistica e «saggia», con il suo bisogno di moderato erotismo e di galanteria, con la piú forte esigenza di musicalità e canto come sviluppo poetico di animazione vitale, e con quella stessa convenzione pastorale che ambiguamente, fra tanto effettiva evasività edonistica, celava motivi di naturalezza e di pur prudentissimo rinnovamento della società con il ricorso all’ingenua natura.

Sicché questa linea fu in effetti una via piú storica e praticabile, piú commisurata alle possibilità della generazione nuova e al suo gusto piú chiaramente idillico-edonistico, allo sviluppo delle sue esigenze stilistiche che si configuravano sempre meglio in un accordo preciso e strettissimo fra una mentalità razionalistica e una sentimentalità idillica e patetica, fra senso lieto di un ritmo vitale, nitido, caldo, pauroso di eccessi e di dilatazioni dispersive, e una poetica miniaturistica e melodrammatica, in cui la incipiente componente rococò si sviluppa e confluisce con un classicismo ridotto, con un petrarchismo «illeggiadrito», e recupera elementi di un piccolo realismo idillico e domestico.

Su questa via, la poetica arcadico-razionalistica risolveva la sua fondamentale vena melodrammatica (il melodramma è anche il simbolo e modulo centrale di una vitalità lieta e patetica, bisognosa di animata trepidazione e di «lieto fine») e trovava la sua piú vera espressione poetica nell’opera del Metastasio, poeta di quella complessa tensione e della sua soluzione piú limitata ed organica. Tanto che verso il ’35 lo stesso Muratori, avversario strenuo del melodramma, doveva riconoscere in Metastasio il vero poeta del tempo che aveva vinto dall’interno le stesse obbiezioni muratoriane al melodramma di fine Seicento, alla sua disorganicità, alla sua mescolanza di stili, alla sua improbabilità di vicenda e di situazione, alla sua lasciva vena erotica, al suo asservimento della poesia alla musica.

Capovolto il rapporto musica-poesia in un’effettiva sottolineatura subordinata della musica rispetto all’espressione della parola, risolto il rapporto ragione-poesia in una specie di immagini e situazioni chiare e distinte, ma dense di affetti e tradotte in un linguaggio chiaro, nitido, semplice ed elegante, musicale ed espressivo, popolare e letterario, realizzato concretamente il principio arcadico della poesia come «sogno in presenza della ragione», il Metastasio offriva al suo tempo opere poetiche originalmente profilate e storicamente rappresentative di una vissuta partecipazione agli ideali dell’epoca, pensate per un pubblico la cui sollecitazione viva lo stimolò fino al culmine dell’Olimpiade e del Demofoonte.

Il bisogno di dialogo e canto, di scena e personaggio, di analisi e sintesi dei sentimenti patetici, di ritmo animato vivace e limpido, di linguaggio interamente comprensibile e pur eletto e non prosastico (che viveva nelle aspirazioni dell’epoca e che già si era tradotto in forme minori e piú povere nel sonettismo melodrammatico dello Zappi e della Maratti), trova nelle opere mature del Metastasio la sua esaltazione poetica, incentrata in una vena poetica gracile, limitata, ma sincera, limpida e inconfondibile che poté non a torto affascinare ancora Baretti, Rousseau, Leopardi.

Ma quella vena limpida e difficile, che sgorga al culmine di un’opera lunga e rigorosa di scelte, di prove, di ricambio fra poetica e poesia, si esaurisce all’altezza dei suoi risultati maggiori e il declino del poeta corrispose all’esaurimento del suo accordo col tempo e alla chiusura effettiva di quella fase e di quella poetica.

Mentre lentamente il razionalismo si svolge in illuminismo, il rapporto del Metastasio col tempo storico, culturale, letterario si fa sempre piú discorde e diffidente. E la solitudine cortigiana viennese lo isola sempre piú in un limbo astratto di eroismo cavalleresco-romanzesco, mentre egli giudica sempre piú preoccupato e amareggiato, conservatore e reazionario, il «secolo illuminato» foriero di uno sconvolgimento rivoluzionario dell’ordine assolutistico-paternalistico della sua vera epoca, e allo stesso modo giudica negativamente sia il turbamento di una sensibilità dolorosa e preromantica che gli par ripresentare pericoli di nuovo secentismo e negare la visione idillico-provvidenziale arcadica, sia lo stesso filosofismo in versi e l’eccessivo credito neoclassico agli esemplari greci di cui egli aveva giudicato aspramente le «sconvenienze» e gli eccessi «sublimi» da un punto di vista morale ed estetico.

I limiti storici del Metastasio sono anche i limiti storici dell’Arcadia, delle sue poetiche e della sua produzione letteraria, il cui aspetto piú convenzionale e parassitario ed ozioso ed evasivo-idillico si accentua fra la dispersiva attività frugoniana (pur con i suoi spunti di ripresa nuova del «grandioso» e certa ariosità, negli «sciolti», per motivi e costumi nuovi) e il moltiplicarsi degli improvvisatori in cui si perdeva la forza delle istanze culturali e vitali che avevano animato l’Arcadia al suo sorgere e nel suo sviluppo maturo, mentre i protagonisti dell’Arcadia o si esauriscono poeticamente come il Metastasio, o scompaiono materialmente, o si volgono piú energicamente alla cultura, alla storiografia, all’erudizione, accentuando, anche con nuovi contatti europei (i viaggi di Maffei, Rolli, Conti, Algarotti), una maggiore coscienza europea e i loro impegni ideologici che rappresentano il legame piú attivo verso lo sviluppo illuministico, nella coincidenza col sorgere dei nuovi Stati assolutistici illuminati e l’affermarsi delle nuove dinastie straniere e presto italianizzate in gran parte della penisola, dopo la temporanea crisi dei primi movimenti riformatori intorno agli anni ’30.

Intanto già nella stessa Arcadia il gusto poetico veniva lentamente cambiando con il nuovo impegno figurativo prevalente sul canto e sulla spinta melodrammatica, come avviene nel Rolli degli «endecasillabi», nel Crudeli e piú tardi nel Casti. E il canzonettismo si carica di elementi sensistici e di libertà «libertina» che culminerà poi negli Amori del Savioli.

E se il Conti tende ad una figura del poeta-filosofo di timbro neoplatonico e di avvio al neoclassicismo, certo, nel giro degli anni terminali della prima metà del secolo, viene prevalendo il didascalismo in versi, appoggiato da una folla di traduzioni di didascalici latini e stranieri, vengono prevalendo il sermoneggiare oraziano e la figura del poeta-filosofo in senso illuministico, divulgativo, combattivo per nuove verità e nuova cultura.

E insieme una reazione all’Arcadia si profila al di là delle interne autocritiche del Martello, e mentre un vecchio arcade, il Tommasi, nella prefazione del ’35 alle sue poesie, avverte con dolore che il secolo si è fatto scientifico e filosofico, non ama piú la «bella letteratura» e corre dietro a forme artistiche prosastiche e viziate dall’«empio» pensiero degli stranieri libertini e materialisti, la briosa satira algarottiana del Tempio di Venere (1745) contro il sonettismo versaiolo dell’Arcadia e il suo arcaico petrarchismo astratto e platonizzante corrisponde piú in profondo alle stesse istanze dell’Algarotti a favore di una letteratura ricca di impegni culturali e civili, di una riforma della letteratura, e ripropone la stessa polemica arcadica contro il Seicento con un nesso di ragioni civili e letterarie piú vasto e profondo. Come poi anche piú chiaramente farà il Parini, indicando nel Seicento non solo il secolo del malgusto e della lascivia letteraria e morale, ma il secolo dell’oppressione spagnola e dell’oscurantismo oppressivo del Concilio di Trento e della Controriforma. E la continuità classicistica si ripropone come piú forte ripresa dei valori di natura, virtú e libertà degli antichi, il melodramma viene aggredito insieme alla pura melodia della rima, e, accanto alla cura per la poesia, si precisa tutta una nuova cura e una nuova problematica della prosa svolta al di là dei limiti piú accademici della prosa media arcadica (in cui pure van calcolati gli stili di prosa dei Muratori, Maffei, Giannone, Gravina, Martello) e avvertita ora come piú diretto strumento di divulgazione e di battaglia di idee, piú spregiudicatamente avvicinata alla prosa francese come momento poi superabile in un piú concreto incontro di tradizione e di novità.

La forza di novità della poetica illuministica si misura anzitutto nel rigoglio di idee e di esigenze che sostengono le stesse proposte sulla poesia, piú legate con la cultura e la civiltà e riferite a nozioni di «natura» e «ragione» tanto piú cariche di riferimenti culturali e filosofici e di impegno combattivo e pratico che vuole essere, con tutti i suoi limiti, una dignificazione della serietà della poesia.

Nuovi elementi utilitaristici ed edonistico-sensistici entrano nella meditazione estetica, nuove e piú urgenti immagini di letteratura-civiltà circolano negli scritti del «Caffè» con il suo appello «cose non parole» (che poi era un modo rude per dire: parole nutrite di cose), nelle proposte iconoclastiche delle Virgiliane, nell’impetuoso Discorso sopra la poesia del Parini (connesso con il dialogo Della nobiltà e con la figura sintomatica, in quello, del poeta plebeo), con la sua immagine di una poesia nuova che ha acquistato il merito dell’utilità, dell’incidenza sulla realtà civile ed umana.

Sicché, con tutta la necessaria gradazione di trapassi, con l’adeguato rilievo di elementi di eredità arcadica che sarebbe sciocco negare, bisognerà dire che c’è un passaggio forte fra Arcadia e illuminismo e che esso va fatto valere adeguatamente anche nello studio della poetica attiva nell’epoca illuministica, e che quella non può dirsi piú arcadica. Tanto che non sembra piú arcadica neppure la poetica piú laterale di metà secolo in direzione galante-edonistica e classicistico-rococò come quella del Savioli con i suoi Amori (1758-1765), tanta è la maturazione in essa di una nuova tensione allo spicco sensuoso della figura e della scena, ad un lucido e smaltato realismo di gemma incisa, ad un ritmo meno fluido, meno canoro, piú secco, brillante, clavicembalistico: tensione legata ad una tendenza erotico-edonistica che ha riferimenti chiari con un’epoca di apertura di libertà e di spregiudicatezza, tanto piú acuta, pungente, ardita di quella dell’Arcadia.

Classicismo sensistico-rococò, su base illuministica, con i suoi aspetti piú marginali di brio, di avventura, di malizia sorridente, come conforto e ornamento espressivo di una vita piú aperta e libera, tutta mondana, di una società illuministico-aristocratica. E classicismo rococò dotato, nel caso degli Amori, di una forza tecnica e metrica che ne assicura la lunga durata esemplare di schema medio, fino alla sua irrorazione (e alla fine disgregazione) ad opera di elementi preromantici (Bertola), di elementi neoclassici (Cerretti e Mazza), di nuova grandiosità scenografica (Monti).

Ma tanto piú deve apparire diversa ormai dalle condizioni della poetica arcadica (malgrado l’educazione arcadica e l’utilizzazione di elementi arcadici) la poetica pariniana all’altezza della sua impostazione nelle prime odi, nel citato Discorso sopra la poesia, nei versi ricordati per l’Accademia dei Trasformati, ed essa, su temi illuministici militanti, si propone come la piú chiara e attiva poetica illuministica in Italia.

Quando il Parini riprende l’utile dulci oraziano nella celebre battuta della Salubrità dell’aria («va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto»), egli espone una poetica sostanzialmente nuova, consapevole della sua novità («va per negletta via») sorretta dal senso poetico («la calda fantasia»), rivolta a tradurre, con i suoi mezzi tecnici, precisi e nuovi, con il suo linguaggio classicistico-sensistico, la volontà di un coraggioso impegno riformatore, di un intervento della poesia nella riforma della civitas illuministica concreta, storica e insieme paradigmatica per tutta una generale posizione umana. Di cui il poeta canta le feste, gli eroi, gli obbiettivi di lotta, con una carica nuova di «natura» e «ragione», «piacere» e «virtú», resi circolari e armonici in una civiltà piena e matura, in una tensione alta ad una poesia robusta ed eletta, istintiva e razionale. Tensione portata poi nel Giorno ad arricchirsi di toni ironico-satirici e di nuclei possenti di sdegno, e di sfumature di compiacimento edonistico, nella dialettica viva della sanità popolare e della raffinatezza frivola della classe nobiliare di cui pure il poeta illuminista non vuol perdere gli aspetti di eleganza e civiltà, lontano com’è dal percorrere la via del dialetto, di cui pur ebbe cosí forte sentimento, e del realismo immediato, per la sua stessa volontà di una civiltà riformata, non distrutta secondo i moduli del suo illuminismo riformatore, non rivoluzionario.

Donde poi, sulla base di questo impegno piú aperto, si profila il suo svolgimento entro l’illuminismo verso forme piú sottili e poetiche, in cui il distacco opera sull’impegno, verso una evoluzione di tipo neoclassico che non significa involuzione e tradimento delle sue posizioni centrali, ma loro trasferimento in una zona piú intima (non astrattamente solitaria), meno immediatamente pratica, in un piú forte rilievo della sacertà morale della sua figura di poeta educatore, entro una civiltà che egli sente di aver già contribuito a trasformare rendendola piú attiva, umana e poetica.

In Parini la poetica illuministica ha il suo piú esemplare e centrale risultato poetico che di tanto supera i limiti medi della produzione poetica della fase piú chiaramente illuministica, anche se, a misurare l’ampiezza e l’importanza della zona illuministica, si dovrà meglio misurare la forza della prosa degli scrittori riformatori ed anche acquisire alla zona illuministica, con acuto e duttile ma pur centrale legame, l’altra grande esperienza poetica settecentesca, costituita dal teatro comico goldoniano.

Legato, nella sua formazione e nel suo sviluppo piú intenso, all’ambiente veneziano ricco di fermenti nuovi, ma privo di una condizione favorevole quale fu per il Parini quella del gruppo illuministico lombardo e dello stesso atteggiamento riformatore del governo del Firmian e del Kaunitz, il Goldoni pur si inserisce in una civiltà di sviluppo razionalistico-illuministico medio, piú collegato alla base arcadica settentrionale (la piú ricca di fermenti morali e riformatori) e alle idee di riforma del teatro agitate appunto da Muratori e Maffei (e dal veneziano Marcello per l’intera opera in musica), mentre la sua esperienza di lettura e il suo soggiorno toscano dovettero riportare in lui gli elementi piú vivi dei tentativi del Gigli, del Fagiuoli e del Nelli.

Ed è giusto quindi, col Fubini, rilevare l’importanza che ebbe per lui l’Arcadia, ma certo egli portò poi, entro un’atmosfera di illuminismo meno consapevole, di candido liberalismo, elementi nuovi e piú popolari di attenzione sociale ed umana con un amore vivo per la città degli uomini, per la sanità popolare, per la dignità e libertà umana entro ogni situazione sociale, che lo collocano di nuovo al di là della precisa dimensione arcadica.

Certo gli elementi piú aperti in direzione illuministica il Goldoni li espresse nei tardi Mémoires, nell’ambiente francese di fine secolo, ma ciò che lí piú apertamente si liberava (ottimismo fiducioso e attivo di uomo tutto terreno, gusto per la città magari nei minimi segni di un’organizzazione umana, come le ammirate pietre picchiettate delle strade perché non si scivoli, nella descrizione di Venezia, la sua antipatia per la filosofia scolastica, per la superstizione, per i vapori mistici, il suo amore per il limite e per le situazioni concrete) era pur ben coerente allo spirito goldoniano anche nelle sue commedie e l’impeto di una civiltà piú umana, di una vita piú attiva e concreta, di un dialogo vero e corale sorreggono la sua poetica di «mondo e teatro», la sua riforma impostata sul naturale e sul vero, la sua poesia di mondana letizia e di gusto del limite della situazione concreta. E la polemica anticruscante, antipindarica e antiaulica di tanti suoi componimenti scherzosi colpisce indubbiamente aspetti della poetica arcadica distaccandolo da quella ad un livello diverso di civiltà e di gusto. E la sua poesia e il suo linguaggio poetico possono addirittura sentirsi come le punte piú moderne della letteratura settecentesca e tali da aprire una via piú moderna di quella pariniana: anche se, in realtà, essa rimase piú chiusa rispetto alle possibilità del suo tempo, meno operante e inseribile in una continuazione di civiltà letteraria in cui lo stesso classicismo non può considerarsi come puro impaccio e antistoricamente desiderarlo precocemente caduto, quando si pensi poi a quanto esso ha fruttato centralmente in un Foscolo e in un Leopardi, a quanto di vivo e di moderno ha permesso di esprimersi nello stesso Parini.

Piú centrale, e per livello ideologico e per attivo corrispettivo storico di poetica, appare dunque la posizione pariniana. Che nei suoi svolgimenti già accennati e nelle sue reazioni chiarisce anche il duplice movimento che dal seno dell’illuminismo si viene delineando nella letteratura italiana dal 1760-1770 in poi, con origine iniziale entro quel decennio formidabile di opere e di elementi nuovi, che richiama anche al ritardo del pieno sviluppo illuministico italiano e all’incrociarsi della sua maturità, dei suoi sviluppi, delle sue difficoltà, contraddizioni, compromessi e remore (ad opera di elementi conservatori e confessionali) che tanto si fanno avvertire specie nell’ambito della poetica.

Da una parte il preromanticismo che il Parini esplicitamente e duramente combatté come impura contaminazione della poesia italiana di tradizione greco-latina, dall’altra il neoclassicismo che egli accettava, in una propria utilizzazione profonda e in accordo con il maturarsi del suo animo poetico. La musica alta e pura, il senso intimo della poesia e insieme quella moralità che vi si trasfonde e che permetteva al vecchio Parini di instaurare un complesso rapporto con l’occupazione francese e la Cisalpina e di presentarsi al Foscolo su quella doppia e unica dimensione di arte e moralità esemplare, vanno certo ben al di là dei caratteri piú vulgati della poetica illuministica.

Sicché, pur sorreggendo ancora il fondo del lungo sviluppo della storia poetica pariniana nella sua stessa fase neoclassica, e variamente agendo ancora in tante personalità minori già attive nel gusto neoclassico-preromantico, il corrispettivo di poetica dell’illuminismo viene già complicato e disgregato dalle nuove tendenze che si verranno pronunciando nei decenni iniziali di metà secolo. Quando, come dicevo, dal seno stesso dell’illuminismo vengono sviluppandosi elementi che entrano in una diversa tensione di sensibilità, di intuizioni estetiche, di volontà di poesia, che non possono alla lunga essere affermati solo come elementi tutti interni alla civiltà illuministica, anche perché di fatto in Italia la spinta piú alacre dell’illuminismo (per la sua stessa natura piú riformistica che rivoluzionaria) veniva in parte esaurendosi, nella sua accensione piú ardente e negli elementi piú facilmente commutabili in spinta di poetica. Ed anche se la centrale ispirazione della civiltà dei «lumi» continua a lungo nella stessa curiosità vivacissima di viaggiatori e memorialisti di secondo Settecento per nazioni, paesi, aspetti concreti di civiltà e società, e soprattutto nell’attività e nella prosa dei pensatori e riformatori illuministici italiani per aprirsi – al di là del dispotismo illuminato – verso le istanze rivoluzionarie e democratiche dei «giacobini» italiani: con un’imponente produzione di opere e scritti variamente validi a testimoniare la stessa forza, lucidità, e spesso sensibilità (entusiasmo e ragione, virtú e cuore), della prosa piú direttamente legata alle istanze dell’illuminismo.

Certo, dallo stesso «Caffè» e dagli scritti di Beccaria, di Pietro e soprattutto di Alessandro Verri, la componente sensistica mostra un certo dissociarsi dal saldo circolo ottimistico di natura-ragione e piacere-virtú. E un’accentuazione crescente della sensibilità dolorosa, dell’esaltazione del sentimento, un appassionamento piú intenso ed autonomo per gli «errori utili», per le generose ed attive «illusioni», per i «diritti del cuore» vengono forzando i limiti di equilibrio della loro matrice illuministica.

Già in tal senso si muovono, specie in campo estetico-pragmatico, le intuizioni piú avanzate del Bettinelli nell’Entusiasmo o del Baretti tra «Frusta» e Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire o del Saggio sulla filosofia delle lingue del Cesarotti: entusiasmo e genio contro regole e fredda ragione, nazionalità e individualità del linguaggio, bellezza del «brutto» purché intensamente caratteristico e naturale, scoperta di Shakespeare, esaltazione del quarto canto dell’Eneide, dei canti di Francesca e di Ugolino.

Con tutta una vasta utilizzazione di stimoli stranieri (al centro il possente nodo illuministico-preromantico di Rousseau) che costituisce, insieme all’attività dei viaggiatori italiani all’estero, una nuova fase di fecondo contatto europeo da considerare non come pura e meccanica importazione ma con crescenti ragioni proprie e con un particolare valore di viva novità entro la tradizione italiana e la sua prevalente tendenza classicistica. La quale, d’altra parte, non manca di esercitare anche in questo filone preromantico la sua influenza di riequilibramento e di smussamento, ma non fino al punto da ridurre le nuove tensioni sentimentali estetiche e poetiche a pura tematica indifferentemente esercitata ed edulcorata dagli impenitenti verseggiatori ed «arcadi» italiani; ché, scartate le vecchie denominazioni di Arcadia lugubre, notturna e preromantica che pospongono gli elementi di fondo agli aspetti piú esterni di residui arcadici, non basta riportare tutta la nuova ricchezza di tensioni sentimentali, la nuova tematica sollecitata dalle traduzioni di testi preromantici stranieri, i nuovi spunti di estetica e critica a un puro e semplice aspetto interno e coerente della civiltà e della poetica illuministica.

Se infatti una globalizzazione arcadica per tutto il Settecento è assolutamente insufficiente, insufficiente è, per tutto il secondo Settecento, una globalizzazione illuministica quando prevalgono gli elementi di crisi dell’illuminismo e si manifestano movimenti di sentimento, di gusto, di cultura che Alfieri, Foscolo, Leopardi variamente risentiranno in polemica con elementi centrali della civiltà illuministica e che già si instaurano in una direzione che porta ad altro, verso l’epoca e le poetiche del primo Ottocento romantico.

Né si vuol cosí aderire ad una limitazione e decurtazione dell’illuminismo – spina dorsale del pieno Settecento e della sua difficile ricerca della libertà, della dignità ed autonomia umana, della sua ansia di riforme e di lotta rinnovatrice in ogni campo – bensí solo legittimamente articolare e arricchire la comprensione nostra in una zona folta di passaggi, di crisi e di sviluppo, straordinariamente esemplificata soprattutto poi nell’Alfieri, il quale con la sua potente carica preromantica, con la sua versione preromantica di elementi illuministici ha fondato un senso piú profondo della libertà, della poesia e dell’uomo e ha trovato le scaturigini della sua grande poesia tragica (tragica per natura e per storia e non per pura adesione a schemi di generi) proprio nella vissuta – anche se non teoricamente spiegata – sofferenza della crisi illuministica, della sproporzione fra reale e ideale, dell’urto dell’individualità «protoromantica» contro i limiti del reale e contro ogni concezione di ordine provvidenziale, cattolica o illuministica che fosse.

Esiste anche in Italia un fascio di nuove tensioni che nell’Alfieri o – fuori ormai del vero Settecento – nell’Ortis foscoliano si prospetterà in violente forme di contrapposizione ragione-passione, ottimismo-pessimismo, illusione-filosofia e motiverà in parte la stessa reazione alfieriana alla rivoluzione francese; ed esiste una tendenza di poetica che svaria fra le nuove intuizioni estetiche e critiche e le sollecitazioni delle versioni preromantiche e soprattutto dell’Ossian cesarottiano, miniera inesauribile di stimoli per i grandi poeti da Alfieri a Leopardi e immissione formidabile nella nostra tradizione di temi e immagini nuove (il senso oppressivo della morte e della notte, la natura selvaggia e in tensione, la voluttà del dolore, i paesaggi desolati e sconfinati del Nord, la tomba solitaria, l’eroismo primitivo e pessimistico) e di cadenze e di moduli espressivi e metrici nuovi entro l’endecasillabo sciolto, portato a misura del sentimento irruente, malinconico, elegiaco, con le sue interrogazioni dolenti e grandiose che arieggiano, a ben guardare, un modulo interno di un’epoca di crisi, di domande piú che di soluzioni.

Questa tendenza trova già una possibilità di azione nella zona preromantica settecentesca in forme di mediazione piú cauta, ma tali da costituire una larga trama di poetica e di minori risultati tra prosa e poesia: il Viaggio sul Reno del Bertola con il suo senso pittoresco preromantico, le Poesie e prose campestri del Pindemonte con i loro temi spesso preleopardiani e con la loro resa artistica gracile e luminosa, la loro temperie aristocratica di edonismo sensibile e sentimentale, con la tendenza a ridurre, a mediare istanze preromantiche con istanze neoclassiche, che sembra a poco a poco esaurire la carica preromantica italiana, se non ci fosse l’Alfieri e subito dopo, al di là della versione piú scenografica e decorativa del Monti dei Pensieri d’amore e degli Sciolti al Chigi, l’Ortis foscoliano.

Zona dunque e tendenza da sottolineare e limitare nella sua precisa forza ed estensione, anche se un’operazione piú vasta e generale non ci dovesse preliminarmente fare intendere come certe esigenze preromantiche vivano – a lor modo e in una direzione fra adesione e reazione all’illuminismo – anche alla base della ripresa classicistica in forma neoclassica.

Non solo l’elemento di nostalgia, che i preromantici collocano nel primitivo e nell’esotico e che i neoclassici situano nel passato greco come epoca di perfezione umana e poetica, ma la stessa generale impostazione di tensione alla poesia sublime, grande, geniale, ispirata, immaginosa, di fronte a quella che appariva una depressione della poesia in forme troppo discorsive e scientifiche.

L’alta protesta dell’Alfieri all’altezza del Saul, contro il secolo «tanto ragionatore e niente poetico», trova una certa corrispondenza e contemporaneità con le numerosissime versioni della Bibbia, con l’amore del Cesarotti per il «sublime» dell’Ossian, con l’infatuazione del Monti per la poesia degli ebrei e il disprezzo per la poesia miniaturistica e idillica nel Discorso preliminare al Saggio di poesia del ’79, con le proposte di poetica del Mazza e del Rezzonico per una poesia di neoclassicismo grandioso, con una particolare ripresa di certi aspetti della prima Arcadia eroicizzante e del frugonianesimo piú velleitariamente «alto».

C’è insomma, intorno al ’70-80, una concitazione in gran parte velleitaria, e alla fine in molti casi libresca e fastidiosa, ma non casuale, legata alla critica dell’illuminismo e soprattutto delle sue poetiche e che viene riducendo di forza le stesse forme di classicismo rococò di tipo savioliano esercitate dai «lombardi», ma da essi poi rifiutate a favore di poetiche piú «alte e sublimi», rinforzanti l’aspetto di novità delle stesse poetiche neoclassiche.

Queste si pronunciano con un certo scarto cronologico rispetto all’ondata preromantica appoggiata alle traduzioni e all’Ossian, e infatti, mentre si alimentano di alcune istanze preromantiche, si svolgono in una specie di lotta a piú fronti sia contro il preromanticismo «esotico e barbarico», sia contro i residui arcadici localizzati soprattutto nel Meridione, sia contro il filosofismo in versi di tipo illuministico, francesizzante e impoetico. Forme di misoneismo nazionalistico e cattolico si mescolano con istanze poetiche piú schiette e con esigenze stilistiche e linguistiche di un purismo variamente pedantesco o fecondo; esigenze neoplatoniche e metafisiche (bellezza ideale, armonia, musica rasserenante) si mescolano con riprese di nuovo didascalismo moralistico che pur si apre a spiragli di piccolo realismo domestico e a nuove forme di idillio, sull’appoggio della nuova intensa ripresa di traduzioni dai classici latini e greci.

Certo con gravi cadute in un archeologismo di statue gessose, in una nuova discorsività pacata ed esangue, ma anche con una significativa aspirazione almeno intenzionale alla rivincita della poesia, della bellezza, della tradizione e dello stile contro il praticismo e contenutismo: aspirazione che guida, alla fine del secolo, alla ibrida via eclettica del Monti e poi alla via foscoliana delle Odi e delle Grazie e a certi temi della discussione romantica del Leopardi, e indubbiamente ha una sua importanza nella complessa formazione del romanticismo classico italiano, quando la tensione piú astratta alla bellezza ideale diverrà tensione a valori consolatori e perfetti, luce della grande poesia sulle miserie della sofferenza umana.

Ma il secolo si chiude in realtà con le due alte e opposte soluzioni, quella neoclassica del Parini e quella preromantica dell’Alfieri.

La prima piú in accordo con un cauto e armonico sviluppo di sostanziali elementi di fede illuministica, la seconda con una reazione all’illuminismo e un trasferimento di elementi illuministici in funzione preromantica, con una novità e una potenza che va al di là di quella del Parini, fino a determinare l’intuizione-incomprensione che il Parini ebbe dell’Alfieri, riconoscendone la novità sentimentale, ma non riuscendo a risalire da essa all’originalità del suo stile.

Perché al centro della personalità e della poetica alfieriana, con il suo mito del letterato agonistico e anticonformista, con l’immagine della poesia come «piú forte figlia del forte sentire», vive il motivo piú profondo della crisi illuministico-preromantica: accentuazione dell’unica radice del bene e del male nel «forte sentire», esaltazione degli oscuri fermenti della precoscienza, e insieme disperata tensione morale, rivolta contro un ordine delle cose cattolico o razionalistico, limitativo della nuova personalità umana: rivolta aspirante ad una libertà ed affermazione infinita e insieme dolorosamente consapevole del limite esistenziale, risolta nel modulo tragico della matura e complessa tragedia alfieriana che si sviluppa pienamente quando la crisi è interamente approfondita. E al modulo interno e costruttivo preromantico corrisponde tutta una ricca gamma di connotazioni preromantiche portate al loro esito piú aperto e poetico; cosí il senso di una natura che, alimentata dalle suggestioni ossianesche, le trasvalora in un nuovo accordo di moduli personali storici di paesaggio in tensione e di stati d’animo turbati e drammatici («il cor cui fiamma inestinguibil cuoce», «e muggian l’onde irate in suon feroce») fino al riaffiorare di una superiore calma (il percorso sintomatico del capolavoro del sonetto scritto a Marina di Pisa nell’85, nell’epoca suprema fra Saul e Mirra) nata sulla intensificazione e concitazione estrema della sensibilità; cosí i caratteri suoi del linguaggio, della costruzione articolata e ascendente che adegua il moto tempestoso e impetuoso dell’animo che veniva scoprendo il senso dell’infinito, l’analogia romantica tra musica e sentimento malinconico, le intermittenze del cuore e il recupero intensificato del passato nel risorgere improvviso del ricordo, conseguiti poi nella Vita, in cui si riverberano in senso nuovo le stesse esperienze di prosa francese degli anni formativi, cosí come lo studio degli illuministi, che tanto lega l’Alfieri al suo secolo, si svolge attraverso l’estremismo della Tirannide e l’ingorgo di Del Principe e delle lettere in una misura nuova di crisi e di divario fra ideale e reale, in una rivolta alle forme piú consolidate e vulgate della civiltà illuministica e dei suoi corrispettivi di poetica.

Via il melodramma in ogni accezione, via gli elementi idillici rococò, via la saggezza equilibrata del Parini e la sua preoccupazione umanitaria, entro un selvaggio e potente impeto sentimentale (e pur tutt’altro che dispersivo e privo di una forte componente di robusta moralità e di una nuova versione della scuola dei classici), carico, se si vuole, di potenziali veleni nazionalistici e irrazionalistici, ma ben piú fortemente folto di germi potenti di futuro sulla grande via del Foscolo e del Leopardi.

Ché subito dopo, in un accelerarsi incalzante di tempi, proprio alla fine del secolo, dopo una rapida esperienza che brucia tutti i termini delle poetiche settecentesche piú tarde, il Foscolo dell’Ortis esprimerà, nella sua densa spirale di anelli di sofferenza e testimonianza personale, politica, storica, esistenziale, i fermenti piú vitali dell’estrema civiltà settecentesca italiana ed europea e dei suoi germi romantici. Come il neoclassicismo romantico del Foscolo supererà, con i suoi temi drammatici e la sua nuova misura di ritmo e con il suo nuovo linguaggio, le possibilità del gusto settecentesco piú avanzato. E l’«illacrimata sepoltura» del sonetto A Zacinto risolverà in assoluta originalità la gocciolante sentimentalità preromantica e il nitore neoclassico, mentre a nuovo livello il Foscolo riprenderà temi del Gravina, del Conti, del Vico e tutta l’eredità della poesia sepolcrale e l’aspirazione neoclassica alla bellezza e armonia, nella elaborazione nuova di valori vitali e culturali della grande poesia dei Sepolcri e delle Grazie.

E il romanticismo lombardo del «Conciliatore» riprenderà, nella sua nuova e originale problematica, temi illuministici, preromantici e persino neoclassici; nel Manzoni ritorneranno, nella stessa polemica sul Seicento e nell’antipatia per il romanzesco e il chimerico, motivi già avviati sin dal lontanissimo Muratori. E sin la lezione di chiarezza dei modesti arcadi e quella piú energica degli illuministi non saranno senza utilità per quella nuova grande epoca poetica cosí rivoluzionaria e profonda e pur cosí limpida e chiara, cosí fantastica e pur razionale, poesia di poeti che vollero veder chiaro nei loro problemi e nei problemi del tempo, che ebbero profonda coscienza morale e civile, sino alla suprema protesta morale ed umana della Ginestra leopardiana, grandiosa ripresa di temi illuministici in una nuova eccezionale tensione romantica.

Cosí il Settecento italiano rivela, pur con tutte le sue remore e i suoi limiti (riflessi a volte in elementi piú conservativi e moderati della letteratura ottocentesca), anche di fronte alla nuova grande epoca di primo Ottocento, la sua ricchezza di poetica in senso di preparazione di una grande tradizione e di una grande civiltà, ma insieme la sua ricchezza interna di poetica e di poesia senza di cui la sua stessa forza preparatoria non avrebbe avuto possibilità di estendersi e di concretarsi sull’appoggio di effettivi risultati.